« La psicologia si occupa dei "giochi" della mente: studia le partite che le persone giocano fra loro
e le neuroscienze studiano i mezzi con cui giocare: un bastone può servire al battitore per colpire la palla che il lanciatore gli lancia in una partita di baseball, ma lo stesso bastone può servire a qualcun altro per rompere la faccia di un amico. »
Luciano Mecacci

venerdì 17 settembre 2010

Come smettere di avere incubi


Smettere di fare incubi si può. O al meno ne sono convinti gli piscologi che hanno studiato una serie di terapie grazie alle quali è possibile condizionare il sogno, fermando l'incubo prima di diventare tale o addirittura trasformandoli in visioni piacevoli.

Sono tante le terapie a disposizione degli psicologi, si legge sul New York Times, alcune consistono in esercizi di desensibilizzazione delle paure che poi sconvolgono i nostri sogni, come la paura dei serpenti; la desensibilizzazione consiste nel mostrare l'oggetto che causa paura al paziente mentre è sveglio.

Un'altra terapia in uso è quella del sogno lucido: ricercatori olandesi dell'università di Utrecht diretti da Victor Spoormaker hanno dimostrato l'efficacia di questa terapia che consiste nell'insegnare ai pazienti a rendersi conto di quando stanno entrando nel sogno fino a divenire capaci di modificarne la trama e dargli il lieto fine. Nella realtà, però, l'invasione nei sogni di una persona ha risvolti terapeutici: molti individui, infatti, reduci da brutti traumi e sofferenti del disturbo da stress post traumatico, non dormono affatto sonni tranquilli: sono continuamente spossati da incubi ricorrenti che riaccendono le ferite del trauma, per esempio un incendio o una violenza subita. Ma gli psicologi sanno come aiutarli: per esempio l'equipe di Spoormaker ha dimostrato in uno studio pilota i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica 'Psychotherapy and Psychosomatics', che la terapia del sogno lucido funziona.

Infatti gli psicologi sono riusciti a ridurre la frequenza degli incubi in persone sottoposte a un ciclo di terapia cognitiva volta ad insegnare loro a controllare i sogni, i loro incubi si riducono. La terapia consiste in esercizi che aiutano a rendersi conto del momento in cui si inizia a sognare e quindi a prendere lucidamente in mano la trama del sogno impedendo l'incubo. E non è finita: uno studio appena uscito sul numero di luglio del Journal of Psychiatric Practice dimostra che una terapia psicologica fondata su interventi multipli riesce ad alleviare il disturbo da incubi post-traumatici, problema che spesso persiste in individui reduci da un grosso trauma, anche quando quest'ultimo è stato già sanato dalla psicoterapia.

I ricercatori del Baylor College of Medicine hanno dimostrato che questa terapia multipla funziona sia sui civili, sia sui reduci dal Vietnam. Sul New York Time, invece, si parla anche della terapia da 'incubazione dei sognì, che consiste nell'orientare i nostri sogni con note scritte prima di andare a dormire. Gli esperti si interrogano però sulle possibili conseguenze di tale terapia, gli incubi sono pur sempre messaggi che la mente ci invia. E non è solo l'unico dubbio: se la terapia fosse usata per prendere il controllo su di noi attraverso i sogni, o per generare incubi da impazzire nelle persone che normalmente non ne fanno?

[Fonte: http://www.gazzettino.it/]

mercoledì 15 settembre 2010

La solitudine fa male quanto un pacchetto di sigarette


Gli amici allungano la vita:

stabilire una rete di rapporti sociali

aumenta del 50% le probabilità di sopravvivenza


MILANO - È dannosa come l’alcol e il fumo ed è due volte più pericolosa dell’obesità: la mancanza di relazioni sociali fa male alla salute e accorcia la vita. Molti, in passato, hanno studiato gli effetti della solitudine sulla psiche; ora un gruppo di ricercatori della Brigham Young University a Provo, Utah, ha valutato anche quanto l’assenza di rapporti con gli altri può condizionare la salute fisica. Ed è arrivato alla conclusione che le relazioni sociali, non importa se con amici, familiari, vicini di casa o colleghi di lavoro, aumentano le probabilità di sopravvivenza del 50 per cento. «L’idea che la perdita di relazioni sociali sia un fattore di rischio di mortalità - commenta Julianne Holt-Lunstad, che ha coordinato la ricerca appena pubblicata su PLoS Medicine - non è ben riconosciuta dal pubblico e neppure dagli operatori sanitari».


STUDI NEL TEMPO - I ricercatori americani hanno analizzato 148 studi dai quali potevano ricavare dati di mortalità su un certo numero di persone, seguite nel tempo (in media sette anni e mezzo), e informazioni sui loro rapporti sociali. Così hanno anche potuto confrontare l’impatto dell’isolamento sociale sulla mortalità rispetto ad altri fattori di rischio ben più conosciuti. E hanno scoperto che quest’ultimo non solo è due volte più pericoloso dell’obesità, ma equivale a fumare 15 sigarette al giorno o ad abusare dell’alcol ed è più dannosa della mancanza di esercizio fisico. Ci sono molti modi attraverso i quali amici o familiari possono influenzare positivamente la salute: dall’effetto tranquillizzante di un contatto fisico vero e proprio fino alla scoperta di qualche nuovo significato da dare alla propria esistenza.


TROPPI STRESS - «Quando una persona intrattiene relazioni con gli altri - aggiunge Holt-Lunstad - si sente in qualche modo responsabile per loro ed è stimolata a prendersi cura di sé e a evitare situazioni di rischio per la propria salute». L’effetto protettivo delle relazioni non vale soltanto per gli adulti o gli anziani, ma in qualsiasi periodo della vita. Vale la pena di riflettere su questa ricerca, anche se non fa altro che confermare cose di buon senso, soprattutto in un’epoca, come la nostra, in cui la tecnologia, la pressione lavorativa e gli stress quotidiani non lasciano più tempo per stare con amici e parenti.


Adriana Bazzi

[fonte: corriere.it]

lunedì 12 luglio 2010

Cibi «arricchiti» per creare dipendenza.

Perché mangiamo troppo? È colpa dell'iper-palatabilità, una nuova e amplificata sensibilità ai gusti arricchiti con sali, zuccheri e grassi da parte dei produttori di cibo.

MILANO – Ingrassiamo anche perché mangiamo troppo, ma la colpa potrebbe non essere tutta e solo nostra. Anzi, probabilmente ingurgitiamo cibi che creano dipendenza perché sono stati manipolati dai produttori e arricchiti con sali, grassi e zuccheri per non farci smettere di volerne. È questa la teoria del professore di Harvard David Kessler, ex commissario della Food and drug administration statunitense, che a questo argomento ha dedicato un libro («The End of Overeating», non esiste ancora traduzione italiana ma si può acquistare su Amazon).

COME PER LE SIGARETTE – La palatabilità è uno dei fattori che più interessano le società produttrici di alimenti: che si tratti di un formaggio dal gusto strutturato e deciso, o del ripieno delicato della pasta fresca, è l’incontro con il palato del consumatore a decretare il successo o il fallimento di un cibo in fase di vendita. Per questo chimici e ricercatori lavorano per migliorare – e potenziare – l’esperienza di gusto dei propri prodotti. Ma questa tendenza è stata portata all’eccesso, sostiene il professor Kessler, proprio come avvenne con le sigarette «potenziate» con ammoniaca e altri additivi, per aumentare la voglia di fumarne ancora, denuncia che non abbandona i produttori di sigarette dal 2005 in poi. E l’eccesso guida i produttori a ricercare non solo la gioia del gusto, ma quella di un’esperienza innaturale, chiamata da Kessler della «iper-palatabilità».

CIBI ARRICCHITI – Per raggiungere lo scopo vengono utilizzate tecniche diverse. La prima e più comune è quella di «aumentare» gli ingredienti delle pietanze con sali, zuccheri e grassi per renderli più appetibili al palato. La seconda è quella di creare una nuova esperienza di masticazione: se i cibi sono facili da masticare e deglutire, grazie a morbidezza all’incontro con lingua e denti, si avrà voglia di buttar giù velocemente un secondo boccone. Questi accorgimenti stimolerebbero i nostri recettori nervosi esattamente come avviene con l’assunzione degli oppioidi (come la morfina), causando la dipendenza da cibo e a ruota, divenendo possibile causa di sovrappeso. Proprio per combattere questa malattia, l’università di Yale ha creato la Yale Food Addiction Scale, utilizzata dai medici statunitensi soprattutto per il controllo dell’obesità infantile. La scala parte da un questionario e riconosce tra i consumatori quali sono a rischio sovrappeso a causa di una sensibilità maggiore a queste sostanze arricchite e quali no.

Eva Perasso
[ fonte: corriere.it ]

martedì 22 giugno 2010

Troppa tecnologia fa male.

La tecnologia ha invaso la nostra quotidianità. Siamo bombardati continuamente da diversi flussi di informazione - dal telefono al computer alla tv - e siamo in grado di fare sempre più cose contemporaneamente. In media ricorrriamo ai mezzi di comunicazione tre volte di più rispetto agli anni Sessanta e visitiamo circa 40 siti web al giorno cambiando finestra o programma almeno 37 volte in un'ora. Prendendo in prestito un termine dal linguaggio informatico, siamo sempre più "multitasker". Ma a quale prezzo? Se state leggendo questo articolo lanciando ogni tanto uno sguardo al cellulare o alla tv, controllando occasionalmente la casella di posta elettronica o i tweet dei vostri amici, chattando con loro su msn o ascoltando il vostro iPod, probabilmente - sostengono sempre più ricerche - la tecnologia vi sta chiedendo un "costo" mentale e sociale molto alto. Sì, perché non solo interferisce con le vostre vite quotidiane, sottraendovi tempo da dedicare ad amici e parenti nella vita reale, ma sta persino cambiando la vostra capacità di memorizzare e ridisegnando il vostro cervello. "Stiamo esponendo i nostri cervelli a nuovi ambienti e chiedendo loro di fare cose per le quali non sono necessariamente evoluti. Sappiamo che ci sono delle conseguenze", ha detto al New York Times Adam Gazzaley, direttore del Centro immagini per la neuroscienza presso l'Università della California.

"Quando hai 500 foto delle tue vacanze sul tuo account Flikr contro cinque veramente significative, cambia la tua capacità di ricordare i momenti che davvero vuoi ricordare?", chiede retoricamente lo psichiatra Elias Aboujaoude, direttore della Impulse Control Disorders Clinic di Stanford e autore del libro Virtually you: the Internet and the fracturing of the self (Virtualmente tu: Internet e la frattura del sé). Grazie agli spazi di archiviazione su Internet pressoché illimitati, siamo incoraggiati a serbare tutto, comprese le informazioni più insignificanti a scapito di quelle nuove: inevitabilmente - sostiene Aboujaoude - ciò cambia "la nostra capacità di archiviare nuove memorie e di ricordare le cose che dovremmo davvero ricordare".

Un team di ricercatori della Stanford University è andato oltre sfatando il mito del "multitasker" iperproduttivo: ha dimostrato che se il cervello di chi sa usare un computer è più abile a trovare informazioni mentre quello di chi gioca ai videogame sviluppa una migliore attività visiva, quello del multitasker ha invece più difficoltà a concentrarsi, non riesce a distinguere le informazioni irrilevanti da quelle rivelanti e, come se non bastasse, è anche più stressato. Una porzione del cervello agisce infatti come torre di controllo e ci aiuta a concentrarci e a stabilire delle priorità, mentre parti più primitive, le stesse che elaborano visioni e suoni, le chiedono di distogliere l'attenzione ogni volta che vengono stimolate, bombardandola incessantemente.

"La parte più spaventosa è che non ci si riesce a sbarazzare delle proprie tendenze multitasking neppure quando non si fa multitasking", ha spiegato Clifford Nass, il neuroscienziato che ha guidato la ricerca. In altre parole, l'incapacità di concentrarsi persiste anche a computer spento. Solo i cosiddetti supertasker riescono a giostrare indenni molteplici flussi d'informazione. Rappresentano però meno del 3 per cento della popolazione. "Siamo a un punto di flesso: le esperienze di una significativa frazione di gente sono sempre più frammentate", avverte Nass. Non resta, suggerisce concordando con altri esperti, che cercare di limitare drasticamente il tempo che trascorriamo online: obbligarci a lasciare il cellulare a casa occasionalmente, stabilire quanto tempo trascorrere quotidianamente sui social network o un limite al numero di volte in cui ci colleghiamo per controllare la nostra casella di posta elettronica". Perché è solo staccando la spina e "prestandoci attenzione l'un l'altro che - sostiene Nass - diventiamo più umani".

[Fonte: repubblica.it]

« La tecnologia da sola non può né liberare né rendere schiavi;
essa deve essere capita, guidata,
impiegata verso gli obiettivi che ci interessano.
»
(Giorgio Ceragioli)

venerdì 4 giugno 2010

Cambiamenti climatici e psicologia

I cambiamenti climatici stravolgono l'equilibrio del pianeta, ma anche quello dei singoli individui, impreparati a disastri ambientali. "La psicologia e gli psicologi possono offrire strumenti importanti per gestire le sfide attuali e future di un mondo contraddistinto dalla crescente complessita'". Lo ha spiegato Truett Anderson, scienziato impegnato nella promozione del ruolo della Psicologia sociale per affrontare i problemi del Global Impact Warning, che ha tenuto a Roma, una Lectio magistralis, all'Accademia Filarmonica, in un incontro promosso dall'Ordine degli Psicologi del Lazio.

"Siamo tutti colpiti - ha detto il vice presidente dell'Ordine degli Psicologi del Lazio, Paolo Cruciani, aprendo l'incontro - dai numerosi disastri ambientali che stanno stravolgendo l'equilibrio del pianeta, l'ultimo è la marea nera nel Golfo del Messico. Come Ordine abbiamo sentito l'urgenza e la necessità di fermarci a riflettere sul futuro della nostra terra e le responsabilità degli uomini, ascoltando le analisi e le suggestioni del professor Truett Anderson".

Nella sua lezione, poi, l'esperto americano ha chiarito la responsabilità sociale della psicologia e i suoi compiti di fronte ai grandi cambiamenti climatici, capaci di modificare la vita sulla terra e suscitare profonde ansie nelle persone.
Tre sembrano - secondo la sua analisi - le grandi questioni a cui dare risposte. La prima: smontare gli aspetti emozionali spesso terroristici della comunicazione, legati alle grandi modificazioni ambientali, che possono essere utilizzati per esercitare vere e proprie forme di repressione a livello sociale. La seconda: prevenire le risposte irrazionali delle persone che possono scatenare azioni primitive e violente o profonda disperazione. La terza: favorire una mentalità aperta collegata a responsabilità politica e morale, per maturare la consapevolezza che noi siamo la navicella, noi stessi siamo la terra, ad essa biologicamente integrati. Qui sta la dimensione strategica della psicologia, che dovrebbe essere promossa fin dai primi livelli della formazione, con un servizio diffuso di psicologia scolastica.
"Tutti i cittadini del pianeta terra - ha sottolineato Anderson - hanno bisogno di una nuova forma di alfabetizzazione emozionale, che permetta loro di comprendere che viviamo nell'era dell'Antropocene, così definita dal premio Nobel Paul Crutzen, membro dell'Accademia Mondiale dell'Arte e della Scienza. Perché gli esseri umani per la prima volta nella storia del pianeta sono divenuti la variabile più importante che impatta non solo gli esseri umani, ma tutte le forme di vita del pianeta".
Se gli esseri umani rimangono "ciechi e ignari di questa loro micidiale potenza le conseguenze saranno catastrofiche per tutti. La psicologia e gli psicologi - ha concluso Anderson - possono offrire strumenti importanti per gestire le sfide attuali e future di un mondo contraddistinto dalla crescente complessità".

"Si tratta dell'evoluzione della specie umana e della sua capacità di comprensione e di gestione dell'impatto che abbiamo su noi stessi, gli altri e tutte le forme viventi. E' necessario comprendere, a tutti i livelli di responsabilità, come si possono affrontare le sfide attuali, tra le quali spiccano il riscaldamento del pianeta, l'uso delle risorse e ancor più l'identità e il senso di appartenenza degli esseri umani al sistema terra e alla complessa trama della vita".

Fonte: http://www.adnkronos.com/

lunedì 31 maggio 2010

Iperattività ADHD e pesticidi

L’epidemia di bambini iperattivi in USA e nel resto del mondo può essere causata da pesticidi (organofosfati), largamente utilizzati anche in Europa ed in Italia come insetticidi ed erbicidi. Ajmone (psicologo, esperto di ADHD): “L’Istituto Superiore di Sanità sapeva e non è intervenuto, la prima volta che abbiamo sollevato questo problema era il 2006”. Roberti di Sarsina (Dirigente di Psichiatria): “Serve un’alimentazione sostenibile del bambino, basta merendine e coloranti artificiali”. Poma (Giù le Mani dai Bambini): “Noi adulti causiamo queste sindromi ai bambini, e poi pretendiamo di curarli con psicofarmaci”

Harvard (USA) – Pubblicata in USA sulla nota rivista scientifica “Pediatrics” una nuova ricerca sull’intossicazione da pesticidi collegata all’iperattività dei bambini: i ricercatori hanno localizzato tracce di insetticidi nell'urina dei bambini, riscontrando come quelli con livelli più alti di tracce di polifosfati sono quasi due volte più a rischio di sviluppare ADHD (la sindrome dei bambini distratti e troppo agitati, ndr) rispetto a quelli con livelli normale di contaminazione. "C'è una preoccupazione crescente circa il fatto che questi insetticidi possono essere direttamente correlati con l’ADHD - ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters il dott. Marc Weisskopf, della Scuola di Harvard di Salute Pubblica, che ha lavorato allo studio – e quello che questa ricerca ha messo in chiara evidenza – ha aggiunto Weisskopf – è che tutto ciò è vero anche alle concentrazioni più basse”. Gli organofosfati furono originariamente sviluppati per la guerra chimica, e successivamente ampiamente utilizzati in agricoltura, nonostante i sospetti di tossicità per il sistema nervoso. Weisskopf ha rilevato come la presenza di questi agenti chimici nel cibo possa generare alcuni tra i sintomi comportamentali più comuni per l’ADHD, come ad esempio l’eccessiva impulsività, in ampie fasce di popolazione infantile, pari a circa il 10% dei bambini USA. “Siamo sempre stati dell’opinione, e i fatti ora ci stanno dando ragione – ha dichiarato il Dott. Paolo Roberti di Sarsina, Dirigente di Psichiatria all’AUSL di Bologna - che principalmente nell’ADHD ma anche in altre patologie come l’autismo, sono coinvolti fenomeni di intossicazione ed avvelenamento: soggetti che sono costituzionalmente più fragili, risultano sovraesposti a questi fattori, stesso dicasi per tutta una serie di coloranti artificiali che troviamo nelle più comuni caramelle e merendine. In futuro vedranno la luce sempre più ricerche in quest'ambito, che confermeranno la necessità di un'alimentazione “sostenibile” del bambino e anche della donna fin dalla prima gravidanza”.

Un metodo efficace per risolvere il problema – dichiarano gli esperti - sarebbe la cosiddetta “diagnosi differenziale”, una procedura diagnostica che permette di identificare le vere causa alla radice dei problemi di comportamento, distinguendo i problemi di origine ambientale da quelli psichiatrici. Un metodo che comporta però l’impiego di risorse spesso non disponibili nelle ASL. “E’ clamoroso – dichiara il Prof. Claudio Ajmone, psicologo ed esperto di ADHD – era il 2006 la prima volta che abbiamo avanzato all’Istituto Superiore di Sanità ed all’Agenzia del Farmaco una richiesta ben circostanziata, per inserire una seria diagnosi differenziale nei protocolli diagnostico-terapeutici per l’ADHD. L’ISS prevede nei propri protocolli la diagnosi differenziale solo per poche patologie, e tra esse ad esempio non sono inclusi questi pesticidi. Se noi elidiamo dai casi di ADHD in cura con psicofarmaci tutti i casi il cui disagio comportamentale e frutto di altre cause, come questi pesticidi, o i coloranti alimentari, cosa ci resta dell’ADHD? Solo un grande business a favore delle multinazionali farmaceutiche. Noi non stiamo aiutando questi bambini, gli stiamo facendo del male”

Luca Poma, giornalista e portavoce di Giù le Mani dai Bambini®, il più rappresentativo comitato di farmacovigilanza pediatrica in Italia (www.giulemanidaibambini.org) conclude: “l’ADHD è figlia della nostra società: noi adulti causiamo questa sindrome ai nostri bambini, aggravando con la nostra noncuranza fattori di rischio ambientali, e poi pretendiamo di “rimediare” somministrandogli potenti psicofarmaci e metanfetamine che li espongono a rischi gravi per la loro salute. Facciamo ora appello all’Istituto Superiore di Sanità affinché un serio protocollo per una diagnosi differenziale completa venga applicato a tutti i bambini italiani in cura per problemi di comportamento”.

Per scaricare l’abstract della ricerca scientifica su Pediatrics: http://pediatrics.aappublications.org/cgi/content/abstract/peds.2009-3058v1

venerdì 28 maggio 2010

Timidezza?

Quando è eccessiva, la timidezza può compromette seriamente le relazioni sociali e influenzare negativamente anche un legame stabile e duraturo come quello del matrimonio.

A dimostrarlo è stata una ricerca pubblicata sulla rivista Personality and Social Psychology Bulletin.

Una questione fondamentale in psicologia – spiegano gli autori della ricerca Levi Baker e James K. McNulty della Università del Tennessee – è il grado con cui la personalità di un individuo determina la qualità delle sue relazioni sociali. In in due differenti studi, i ricercatori statunitensi hanno dimostrato come una timidezza eccessiva può compromettere seriamente un legame matrimoniale, comportando un minor grado di soddisfazione nel rapporto di coppia.

Le persone timide hanno più problemi a fidarsi del partner, sono più gelose e tendono a gestire il denaro in maniera peggiore rispetto ai soggetti più estroversi, sottolineano gli autori. Inoltre, data la loro difficoltà nell'intrattenere relazioni sociali, al momento che si presenta un problema nel loro rapporto di coppia non ne parlano con nessuno e tendono a nutrire rancori e rabbia.

“Ma esiste ancora una speranza, anche se la timidezza è molto resistente al cambiamento”, affermano gli autori. Le persone timide, infatti, dovrebbero imparare a affrontare i problemi in maniera più decisa, specialmente nel caso di difficoltà nel rapporto di coppia, prendendo di petto le situazioni più importanti ed evitando di “rimandare” sempre tutto al domani. Un atteggiamento che sembra molto difficile da assumere, non soltanto per chi è timido.

Fonte: Baker L and McNulty JK. Shyness and Marriage: Does Shyness Shape Even Established Relationships? Personality and Social Psychology Bulletin, 2010; 36(5):665-76. DOI:10.1177/0146167210367489
http://it.health.yahoo.net/c_news.asp?id=28163