« La psicologia si occupa dei "giochi" della mente: studia le partite che le persone giocano fra loro
e le neuroscienze studiano i mezzi con cui giocare: un bastone può servire al battitore per colpire la palla che il lanciatore gli lancia in una partita di baseball, ma lo stesso bastone può servire a qualcun altro per rompere la faccia di un amico. »
Luciano Mecacci

martedì 27 aprile 2010

Pubblicità ingannevole sul gioco d'azzardo

Una recente campagna pubblicitaria in favore del gioco d’azzardo ha diffuso uno spot televisivo dove si fa esplicito riferimento alla serotonina, quale neurotrasmettitore prodotto dall’emozione del gioco. In particolare, una donna, le cui fattezze sono nascoste da elaborazioni grafiche molto colorate, descrive la soddisfazione ed il piacere del gioco, che le fa produrre serotonina.

“E’ evidente l’intento dello spot di associare l’attività del gioco d’azzardo ad effetti positivi ed alla felicità. Infatti - ha spiegato l’Avvocato Donatella Mazza, che ha segnalato il caso come una violazione delle norme a tutela del consumatore sia all’Antitrust e all’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicità - la serotonina è universalmente associata, almeno a livello divulgativo, alla felicità ed al buon umore oltre che alla cioccolata, e, comunque, a concetti di alto valore positivo.

Non si può ignorare, però, che in questi ultimi mesi le cronache parlano di drammi proprio legati al gioco.Nella forma patologica, il gioco d’azzardo è infatti un disturbo classificato dall’Associazione Psichiatrica Americana tra i “Disturbi del controllo degli impulsi”, con forti affinità e similitudini, soprattutto con l’abuso di sostanze e le dipendenze, nonché con i Disturbi Ossessivo Compulsivi. I giocatori compulsivi (o patologici) sono individui che, nel tempo, sviluppano una progressiva quanto cronica incapacità di resistere all’impulso di giocare; per i giocatori sociali, invece, il gioco d’azzardo resta uno svago in cui investire deliberatamente parte del proprio tempo e del proprio denaro. Per alcuni di loro, tuttavia, tale divertimento si trasformerà in dipendenza.

“In ogni caso - ha commentato l’Avv. Mazza - il gioco non è un’attività produttiva, perché non produce ricchezza: la sposta soltanto, con un incremento soprattutto nei periodi di crisi, come quello attuale. Appare dunque grave e meschino trasmettere messaggi così distorsivi della realtà, senza minimamente tener conto dell’impatto negativo che il gioco ha, inevitabilmente, sul piano personale, lavorativo, familiare e sociale, alimentando false speranze e spingendo le persone a credere che, davvero, il gioco possa avere effetti positivi sul proprio benessere”.

Fonte: Ufficio stampa Inmediares
http://it.health.yahoo.net/c_news.asp?id=27884

sabato 24 aprile 2010

Timidi ma Riflessivi: gli Introversi pensano di più

Guance che si arrossano, atteggiamento impacciato, difficoltà a fare amicizia: la timidezza non è solo una patina che ricopre di mistero e delicatezza le nostre azioni ma una caratteristica capace di condizionare la vita sociale in maniera invalidante. I ricercatori della Stony Brook University di New York, dell'Università del Sud Est e dell'Accademia Cinese delle Scienze hanno analizzato i meccanismi che regolano l'introversione, scoprendo che il cervello delle persone timide percepisce il mondo esterno in modo diverso rispetto a quanto accade per i soggetti estroversi.

"Sensibilità per la Percezione Sensoriale - SPS": è questo il tratto della personalità che porta il 5-6 per cento della popolazione mondiale a comportarsi in modo inibito o addirittura nevrotico, e questo perché chi nasce con questa predisposizione è più sensibile della media agli input del mondo esterno, e ha bisogno di più tempo per prendere decisioni e riflettere. I soggetti "altamente sensibili" sono più coscienziosi, si annoiano facilmente con le chiacchiere inutili e manifestano queste caratteristiche fin da piccoli. I bambini timidi sono infatti "lenti a scaldarsi" nelle situazioni sociali, piangono al primo rimprovero, fanno domande insolite e hanno pensieri fin troppo profondi per la loro età. Da adulti, prestano maggiore attenzione ai dettagli e, quando elaborano le informazioni visive, mostrano un'attività cerebrale più intensa rispetto a coloro che non hanno la "SPS". Chi è timido, spiegano i ricercatori, vive insomma ogni esperienza con maggiore intensità e paga il prezzo di questa doppia sensibilità con una intolleranza genetica a rumore, dolore e caffeina, ovvero a tutto ciò che potenzialmente può minare l'equilibrio del sistema nervoso.

Per giungere a queste conclusioni gli studiosi si sono serviti di un gruppo di volontari, sottoponendo loro un questionario per distinguere i soggetti più da quelli meno sensibili. Successivamente, a 16 dei partecipanti è stato chiesto di mettere a confronto due vignette simili e di osservarne tutti i particolari, e contemporaneamente il cervello di ciascuno è stato esaminato con la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI). Le persone timide hanno osservato le varie differenze per un tempo più lungo di quelle estroverse e hanno mostrato un'attività elevata nelle aree cerebrali che si occupano di associare percezioni visive e sensoriali. Il loro cervello insomma non ha semplicemente elaborato la percezione visiva, ma si è attivato per una lavorazione più profonda degli input.

Questa caratteristica della personalità si trova in oltre 100 specie animali diverse, dai moscerini della frutta ai primati, il che, secondo gli scienziati, sarebbe la spia di un vantaggio evolutivo. Questo è uno dei motivi per cui i biologi hanno iniziato a prendere in considerazione l'ipotesi che, all'interno della stessa specie, ci siano non una ma due personalità vincenti: il tipo sensibile, che rappresenta una minoranza e sceglie di riflettere più a lungo prima di agire, e quello capace di spingersi oltre ogni limite. La strategia della persona timida non è vantaggiosa quando le risorse sono abbondanti o c'è bisogno di azioni veloci e aggressive, ma è utile nelle situazioni di pericolo, quando è più difficile scegliere fra due opportunità ed è necessario un approccio particolarmente cauto e intelligente.

"La timidezza è sicuramente un problema nella società moderna - spiega lo psicologo Walter La Gatta, Presidente dell'AIRT, Associazione Italiana Ricerca sulla Timidezza - perché chi è timido percepisce molti più dettagli e ha bisogno di tempo per elaborarli. Tempo che spesso i ritmi moderni non offrono. Ma non dimentichiamo che le persone molto timide sono anche altrettanto intelligenti e sensibili, quindi questa caratteristica è senz'altro una risorsa".

Non sono in molti però a pensarla così. Secondo un sondaggio online condotto dallo stesso psicologo e dalla sua collaboratrice Giuliana Proietti (autrice del libro "La timidezza. Conoscerla e superarla", ed. Xenia), nel 68 per cento dei casi la timidezza è vissuta come una limitazione a tutto tondo, sia dal punto di vista della carriera che dello sviluppo della vita sociale, mentre il 14 per cento degli italiani la considera addirittura una malattia. Solo il 2 per cento del totale dichiara di vivere questa condizione come un privilegio, mentre veramente "malate di timidezza" sono il 13 per cento delle persone.

"Considerare l'introversione come un limite è un errore madornale", spiega lo psichiatra psicanalista Luigi Anepeta, presidente della Lega Italiana per la tutela dei Diritti degli Introversi (LIDI). L'autore del libro "Timido, docile, ardente. Manuale per capire ed accettare valori e limiti dell'introversione (propria o altrui)", ricorda che il 60 per cento dei personaggi più geniali di tutti i tempi, da Nietzsche a Marx, erano degli introversi e che questa condizione è un modo di essere come un altro, "anzi - conclude - è una condizione che arricchisce moltissimo. Ma purtroppo il mondo moderno ha deciso di esaltare l'estroversione ed emarginare il diverso. E' questo l'unico problema".

lunedì 19 aprile 2010

Il computer e la sindrome della clessidra


Stressati dai tempi di attesa del pc?
Soffrite della sindrome di Hourglass.
Negli Usa è un fenomeno talmente diffuso da aver dato il nome a una patologia: il 23% si dice esasperato.

Chiunque si sia seduto davanti a un monitor e abbia acceso un computer conosce la piccola clessidra che compare mentre il pc sta lavorando. È il segnale che ci aspetta un'attesa, più o meno lunga, durante la quale tutto quello che si può fare è restare con lo sguardo fisso sul video. Chi si sente stressato, o addirittura frustrato, da oggi può dichiararsi affetto dalla sindrome di Hourglass o, italianizzata, sindrome della clessidra.

Intel ha richiesto alla Harris Poll, una società specializzata in sondaggi, di condurre un'inchiesta su come gli utenti vivano i tempi di aggiornamento e download dei propri personal computer. Sono stati intervistati 2.135 cittadini statunitensi e i risultati mostrano una diffusa insofferenza per la lentezza dei computer. Va considerato del resto che con l'avvento dei social network, dello streaming e dei siti di download video o musicali oggi l'utente medio usa molto più di frequente il pc rispetto a soli pochi anni fa e chi non ha adottato strumenti di ultima generazione fa fatica a tenere i ritmi della Rete attuale.

Il 66 per cento degli intervistati si definisce stressato dai tempi di attesa. Il 23 per cento rincara la dose, arrivando a dichiararsi estremamente esasperato dalle prolungate attese. Inoltre esiste una piccola quota del 4 per cento che ha riferito di ritrovarsi ad aspettare, nel corso delle proprie attività al computer, da una a tre ore, con un conseguente e comprensibile stress dovuto anche al tempo limitato che rimane a loro disposizione. Il dato più rilevante giunge alla conclusione del sondaggio, che sottolinea come l'utente medio statunitense trascorra 13 minuti al giorno semplicemente aspettando il proprio computer. Tempo che, proiettato su un anno, fa tre giorni di statica e stressante attesa.

Emanuela Di Pasqua
[Fonte: www.corriere.it]

giovedì 15 aprile 2010

Le parolacce ai figli lasciano il segno

"Le parolacce usate dai genitori nel rapporto con i figli lasciano il segno. Perché sono il sintomo, percepito dai bambini e dagli adolescenti, di uno scarso rispetto e influiscono sull'autostima". Lo spiega Anna Oliverio Ferraris, docente di psicologia dell'età evolutiva all'università Sapienza di Roma, che commenta la sentenza della Cassazione secondo la quale insulti e imprecazioni utilizzati con i figli non sono educativi, ma visto il loro uso comune, non si può punire severamente il genitore che ne fa uso.

Secondo l'esperta l'uso del turpiloquio non può essere riabilitato dal fatto che si impiega correntemente. "E' vero che alcune parole perdono il loro peso quando troppo inflazionate, come nel caso di 'deficiente' o 'cretino'. Ma possono essere dannose sia perché i figli si sentono autorizzati a usare lo stesso linguaggio, sia perché essere trattati con termini volgari e insultanti rende difficile il rapporto con i genitori, incrinandolo".

Tutto questo, insieme alla difficoltà di sviluppare una sana autostima, non favorisce la crescita psicologica ottimale. "Ovviamente - continua la psicologa - la legge non può intervenire su tutto. E' evidente che non si può punire in questi casi. Ma ciò non vuol dire che questi atteggiamenti non abbiano conseguenze anche pesanti sui figli".

«Datemi genitori migliori
e vi darò un mondo migliore.
»
(Aldous Huxley)

giovedì 8 aprile 2010

Dipendenza da cibo-spazzatura?

Sarà capitato sicuramente a tutti, magari al termine di una giornata lavorativa molto faticosa oppure in un momento di forte ansia, di cedere all’irresistibile tentazione di divorare qualsiasi “schifezza” che ci capiti a tiro. Molto spesso è proprio la nostra mente che ci spinge a rimpinzarci di vere e proprie bombe caloriche grondanti grassi e zuccheri.

Ed è proprio dai nostri meccanismi cerebrali che si scatena una sorta di frenesia divoratrice che può essere del tutto paragonata a ciò che succede a chi soffre di altre forme di dipendenza, quali ad esempio il fumo o la droga. Questa è la conclusione a cui è giunta la ricerca statunitense recentemente pubblicata dalla nota rivista di settore Nature Neuroscience e condotta dai ricercatori Paul Johnson e Paul Kenny nell’Istituto Scripps di Jupiter, in Florida.

Nello specifico, gli studiosi hanno osservato e testato il fenomeno di dipendenza dal cosiddetto “junk food” su dei ratti da laboratorio introducendo nella loro alimentazione usuale, composta per lo più da cibi leggeri e sani, dei gustosi snack a base di salsicce, bacon, dolci vari e cioccolato. Pare proprio che gli animali abbiano accettato di buon grado questa piacevole variazione della loro dieta con una conseguente assunzione di eccessive calorie ed un crescente aumento di peso.

La ricerca ha messo in evidenza il fatto che, dopo un breve lasso di tempo, i ratti non erano più in grado di avvertire il senso di sazietà e continuavano dunque ad ingerire alimenti grassi anche quando non era indispensabile. Tutto ciò pare sia indotto dalla modificazione dei cosiddetti “circuiti di ricompensa” ovvero le aree del cervello che regolano la produzione della dopamina (sostanza chimica che attiva dei recettori specifici e trasmette gli impulsi dell‘appagamento). Normalmente questi circuiti cerebrali vengono sollecitati e si attivano prontamente ogniqualvolta si stia vivendo una situazione positiva; dunque l’affievolimento dei suddetti meccanismi riscontrato nei ratti alimentati con i cibi spazzatura pare del tutto assimilabile a ciò che accade nella dipendenza da fumo e droga.

Per ripristinare una condizione di assoluta normalità nei circuiti di ricompensa degli animali sono trascorse ben due settimane dalla sospensione degli snack ipercalorici. La Coldiretti ha commentato questi risultati fornendo delle percentuali sull‘alimentazione scorretta dei bambini italiani alquanto preoccupanti: ben il 41% consuma giornalmente bevande ricche di zucchero e privilegia i cibi grassi anziché la frutta e la verdura. Se si correggessero le abitudini alimentari seguendo una sana dieta mediterranea non si soffrirebbe di vere e proprie crisi d’astinenza da junk food.

[Fonte: http://www.ecplanet.com/node/1338]