« La psicologia si occupa dei "giochi" della mente: studia le partite che le persone giocano fra loro
e le neuroscienze studiano i mezzi con cui giocare: un bastone può servire al battitore per colpire la palla che il lanciatore gli lancia in una partita di baseball, ma lo stesso bastone può servire a qualcun altro per rompere la faccia di un amico. »
Luciano Mecacci

sabato 24 ottobre 2009

I concetti della psicologia della personalità

  • Carattere: la nozione è una delle più antiche nella quale, sulla scia della prima trattazione fattane da Teofasto, si sono comunemente accentuate le connotazioni valoriali che inducono a caratterizzare una persona come buona, cattiva, desiderabile.
  • Temperamento: la nozione ha le proprie radici nel pensiero classico, in Ippocrate prima ed in Galeno poi. Con la nozione di temperamento ci si riferisce agli aspetti dell’organizzazione psicologico-soggettiva: il livello di attività, l’intensità e la rapidità della risposta alla stimolazione, la sensibilità, la responsività.
  • Costituzione: con questo concetto ci si riferisce all’insieme delle qualità fisiche e psichiche di un individuo.
  • Tipo: anche questa è una nozione che ha avuto notevole fortuna in passato e che in tempi recenti è stata accantonata dalla maggior parte degli indirizzi di ricerca. La nozione tradizionale resta di attualità nel sistema eysenckiano dove è la diretta espressione di uno dei tre superfattori (estroversione, nevroticismo, psicoticismo) sovraordinati ai vari tratti.
  • Abitudine: con questa ci si riferisce a sequenze di atti tra loro coordinati che danno luogo ad una condotta relativamente stabile e funzionale.
  • Facoltà: con tale nozione di è fatto riferimento a quanto oggi viene indicato con disposizione, abilità, tratto.
  • Disposizione/Predisposizione: con tali nozioni ci si riferisce a tendenze relativamente stabili a perseguire determinate mete e a comportarsi in un determinato modo.
  • Abilità: questa nozione, spessa sinonimo di capacità, è stata a lungo confinata nell’ambito degli studi sull’intelligenza per rappresentare differenti capacità di soluzione di problemi innate e apprese.
  • Tratto: essi sono costrutti più ampi e più flessibili per rappresentare organizzazioni relativamente stabili di modi di sentire, di conoscere, di agire. Con esso ci si è riferiti a tendenze stabili a produrre determinati comportamenti in determinate situazioni. Sono state suggerite diverse distinzioni tra tratti comuni, individuali, centrali, superficiali e si è giunti a produrre varie elencazioni.
  • Stile: questa nozione è stata principalmente utilizzata secondo due diverse accezioni: come stile di vita da un lato e come stile cognitivo e affettivo dall’altro. Nella prima accezione si è fatto riferimento a ciò che caratterizza il rapporto di una persona con l’ambiente, i modi, i contenuti, le mete del suo pensare ed agire. Nella seconda accezione si è fatto riferimento agli aspetti formali o modali che caratterizzano varie manifestazioni cognitive o affettive.
  • Personalità: il termine deriva dalla parola latina “persona” nei teatri dell’antica Roma gli attori non usavano il trucco, ma indossavano alternativamente un ristretto numero di maschere, chiamate appunto persona. Col termine personalità ci riferiamo ad un insieme di caratteristiche, di disposizioni, di modi di agire comuni a taluni individui. Il significato del termine tuttavia non è soltanto questo, con esso ci riferiamo anche a ciò che è unico di un individuo.

venerdì 9 ottobre 2009

Fobie: cosa sono e come si curano


Fobia-mania, paure senza confini
La paura può trasformare le cose più innocue e comuni negli incubi peggiori. Ma qual è il meccanismo che fa scattare la molla del terrore? Davvero esiste una fobia per tutto? Dove nascono e come si curano questi disturbi?
Immaginate di incrociare per strada una ragazza stupenda: tacchi a spillo, curve al posto giusto, labbra carnose… insomma, uno schianto. Se però invece che voltarvi a guardarla, iniziate a tremare e a sudare freddo, mentre un senso di nausea e oppressione vi attanaglia, allora probabilmente soffrite di caligynefobia, un terrore smisurato per le belle donne. Magari "condito" con un tocco di philematofobia, una fifa matta dei baci. Se invece a spaventarvi sono solo i baci di vostra suocera, forse siete affetti da penterafobia (un’avversione ingiustificata per la madre di vostra moglie).

«La paura è democratica», afferma Giorgio Nardone, psicologo, psicoterapeuta e direttore del Centro di Terapia Strategica di Arezzo (un istituto di ricerca, training e cura di queste patologie), «in 15 anni di terapia ho incontrato oltre 10 mila pazienti, il 52% dei quali donne, il 48% uomini. Non c’è quindi una differenza significativa tra sessi, né tra ceti sociali. Neppure medici e psicologi, che con le fobie hanno a che fare ogni giorno, ne sono immuni».

E l’elenco delle fobie più insolite potrebbe continuare all’infinito, c’è chi non sopporta la vista delle ginocchia - neanche delle proprie - (genufobia), chi trema, e non solo di freddo, quando nevica (quionofobia) e chi ha talmente paura delle ombre da ridursi a vivere nel buio più assoluto. Altri temono gli angoli di case e palazzi (gonofobia), vanno in panico davanti a un minestrone di verdure (lachanofobia) o alla sola vista di un pc (i ciberfobici, che difficilmente leggeranno queste righe). Disturbi un po’ insoliti, certo, ma seri e invalidanti, che possono colpire un po’ tutti, indistintamente.

Sconfiggere la paura si può, basta scegliere la strada giusta. Eccone alcune. D’accordo, la fobia delle lontre (lutrafobia) per chi abita in città, può non essere particolarmente invalidante: basta evitare fiumi e parchi naturali e il problema non si pone. Ma il punto è che dietro a questa e altre paure così specifiche, si nasconde spesso un disagio personale più serio. Perché allora non provare a risolverlo? Gli approcci terapeutici non mancano. La psicoterapia cognitivo-comportamentale, ad esempio, propone una progressiva "desensibilizzazione" dallo stimolo fobico, che porta gradualmente il paziente a scontrarsi con ciò che fa paura. Si comincia con la presa di coscienza della situazione temuta e la si avvicina a poco a poco per arrivare, se la cura ha successo, a viverla realmente (ma questa volta, liberi dal panico). Esistono anche forme di doping sociale: parlare davanti a una platea metterebbe un po’ in soggezione chiunque e, nella maggioranza dei casi, non si tratterebbe di una fobia e neppure di ansia sociale. Ma ricorrere a un farmaco (un cosiddetto lifestyle drug) per affrontare meglio questa realtà è una scorciatoria. Molto pericolosa.
Un esempio?
A un ragazzo terrorizzato dall’idea di poter sbattere il naso contro gli specchi, il terapeuta ha consigliato di proteggersi con un casco da motocross. Tutto preso da questo nuovo compito, il giovane ha ripreso quasi senza accorgersene abitudini abbandonate da tempo a causa del suo disturbo. Riuscendo in breve ad abbandonare il terrore degli specchi (e il casco). In questo caso la fobia è stata sconfitta "solcando il mare all’insaputa del cielo", cioè "spostando l’attenzione dal tentativo di controllare la paura all’esecuzione di un compito distraente".

Diverso è il metodo psichiatrico che prevede, per alcuni tipi di fobie sociali – disturbi che portano chi ne soffre a rinchiudersi in se stesso evitando il contatto con gli altri – il trattamento con farmaci antidepressivi come la paroxetina. Questi farmaci riducono i sintomi esterni del disturbo, non ne combattono le cause alla radice. E in più presentano il rischio di dipendenza.
Ribrezzo, paura, fobia... ma che differenza c'è tra una normale repulsione e una paura invalidante? La differenza sta nell’escalation delle sensazioni e percezioni provate. Possiamo avere ribrezzo per qualcosa, come accade ai bambini, ma se cominciamo a evitare gradatamente quest’oggetto o situazione, allora la repulsione diviene paura, e la paura fobia. La fobia di volare, ad esempio, ci impedisce del tutto di prendere un aereo. Se invece nonostante il timore riusciamo a salirvi, allora siamo ancora entro i limiti della paura.
Elisabetta Intini, 16 febbraio 2009

Per saperne di più:
G. Nardone, Non c’è notte che non veda il giorno: la terapia in tempi brevi per gli attacchi di panico,
Ponte alle Grazie, Milano 2003.

lunedì 5 ottobre 2009

Fantasmi omosessuali

Eugenia, quindici anni, chiede ai suoi genitori di poter parlare con uno psicologo di una questione "personale". I genitori, perplessi e un po' preoccupati, decidono di accontentarla e, dopo essersi informati da amici che hanno già fatto questa esperienza con uno dei loro figli, fissano un appuntamento con una psicoterapeuta specializzata in adolescenti, nota tra i suoi clienti per essere sensibile e capace. Il padre si offre di accompagnarla ma lei insiste per andarci da sola.
Fin dalla prima seduta Eugenia entra in argomento raccontando della sgradevole sensazione di sentirsi “diversa” dalle sue coetanee, o piuttosto di non sapere bene "chi è veramente". Alla richiesta di fornire qualche elemento in più, Eugenia precisa: «qualche volta ho l’impressione di essere un ragazzo, ma quando poi sono con un ragazzo ho l’impressione di essere una ragazza. Mi sento però diversa dalle mie amiche. Ma se sono differente, mi dico, forse è perché sono omosessuale». Racconta poi di un sogno che ha fatto qualche tempo fa, ma di cui mantiene vivo il ricordo: «Ero al cinema con Sara, la mia migliore amica, ci abbracciavamo mentre le nostre compagne di scuola ci guardavano e ridacchiavano. La mattina, quando mi sono svegliata, ho avuto la sensazione di avere fatto un sogno orribile». Si sofferma poi sul senso di vergogna che ha provato a seguito di quel sogno, che ha sempre tenuto per sé senza parlarne con nessuno, anche se «alla fine, mi dico, non c’è nulla di male nell’essere omosessuale, tanti lo sono, sia maschi che femmine. Nella seduta successiva, a distanza di una settimana, Eugenia racconta di un altro sogno che ha fatto nel frattempo. «Arrivo in un luogo pieno di gente in cui non conosco nessuno, una ragazza mi prende la mano e mi abbraccia. Gli altri dicono in coro "Allora è quella la tua fidanzata!". Penso, "devo uscire da questa storia", la ragazza però insiste nel tenermi stretta a sé e mi bacia sulla guancia. Io non so che fare, se svincolarmi o restare. Il sogno va avanti e la scena cambia. Nel corso di una serata in casa di amici vedo un ragazzo fichissimo, lo avvicino e gli chiedo di uscire. Il tizio mi piace molto. Torno dalla ragazza che mi aveva abbracciata e con decisione le dico "sono etero". Poi me ne vado col ragazzo di cui però non riesco a vedere il viso».

Dunque, che dire dell’orientamento sessuale di Eugenia? È omosessuale oppure eterosessuale? E nell’un caso come nell’altro, da che cosa si sta difendendo la nostra quindicenne e perché? La psicoterapeuta, che non ha certo pregiudizi in merito e che in passato ha aiutato vari adolescenti omosessuali (maschi e femmine) ad accettare la propria omosessualità, questa volta è convinta che la sua giovane cliente sia eterosessuale per due diverse ragioni, sia pure strettamente intrecciate tra loro.

  1. I fantasmi omosessuali espressi da Eugenia nei sogni non sono indicativi di una tendenza omosessuale, bensì dalla difficoltà dell’incontro amoroso con il maschio. Essi rappresentano una sorta di evitamento, o di fuga, di fronte ad una eterosessualità che a Eugenia, in questa fase della sua vita e del suo sviluppo, appare angosciante. Un investimento temporaneo di tipo omosessuale, senza contatti sessuali veri e propri ma con una serie di reciproche attenzioni mutuamente narcisistiche, può rappresentare una sorta di conforto, per lei (e per l’amica del cuore), in quel passaggio adolescenziale in cui la penetrazione è fantasticata come un evento inquietante, temuto, una minaccia alla propria integrità fisica e psicologica.
  2. Questo investimento affettivo su una persona dello stesso sesso, generalmente della medesima età, così come i fantasmi che l’accompagnano, sono anche un modo per l’adolescente di negoziare la distanza che s’impone dal padre, per il ragazzo, e dalla madre per la ragazza. Per quanto riguarda Eugenia, poi, il bisogno di investire affettivamente un’amica è in lei ancora più forte che in altre sue coetanee per il tipo di relazione che ha avuto con sua madre. Fin da bambina, infatti, è sempre corsa dietro ad una madre indisponibile, alla ricerca di un amore che questa non riusciva a darle. Ora, attraverso questi fantasmi di un’amicizia molto viva per la sua amica del cuore (da cui non riesce ancora a staccarsi per avere una storia con un ragazzo), Eugenia mostra in realtà di allontanarsi dalla madre in una età, l’adolescenza, in cui è necessario prendere le distanze dai genitori.
    [Psicologia Contemporanea - Set/Ott 2009 - n. 215]